Emil Nolde: in cerca dell'autentico
La
Galleria Nazionale oggi rigurgita di persone: è domenica e Oslo è piovosa come
ogni giorno.
Riposti i cappotti e gli ombrelli, le tele di Emil Nolde
sfolgorano vitali alla nostra sinistra. Colori accesi e violenti, figure ingenue, infantili e tragiche. Il dramma di un essere umano che aspira al divino ma che è al tempo stesso saldamente ancorato ad una materialità animalesca, prerazionale, sanguinaria.
Le tele di Nolde palpitano di rossi, di viola, palpitano forse di tutto il sangue che stava per scorrere in Germania dagli anni 20, dal collasso dell`impero, agli scontri di piazza, alla fragile era di Weimar fino all`ascesa del nazionalsocialismo. I profili monolitici e severi dei suoi soldati guglielmini (opera del 1913) sembrano quasi un presagio in tal senso.
Ma sono anche i mondi altri, per Nolde, a parlare la lingua del sangue e del sesso: come molti altri artisti del suo tempo, infatti, il pittore tedesco fu attratto dalle culture "primitive" extraeuropee, che ancora parevano conservare intatta la naturalità primigenia dell`uomo: ma è una natura tutt`affatto edenica quella che Nolde sugge dai suoi viaggi fuori dall'Europa, è invece una natura grottesca, deformata, disperata, caratterizzata da impellenti bisogni primari, da violente vibrazioni sensuali. Nella danza bacchica delle danzatrici delle candele (1912), circondata dalla luce rossastra del crepuscolo, la frenesia sensuale di queste donne dai profili taglienti
sembra precedere un' estasi/crollo che pare proprio coincidere con il ricongiungimento con questo mondo ferino e prerazionale: le candele e i seni di queste donne violacee ardono nella sera, così come il cielo e il mare tropicali che avvolgono la scena. Nelle vampate scarlatte della sera tutto pare farsi uno.
Non c'è quindi alcuna barriera reale tra il mondo umano e quello naturale e tutti i tentativi europei di costruirne una sono falliti o destinati al fallimento. La stessa legge che regola inflessibilmente il nostro mondo è ben visibile anche nella natura: lo è nei tramonti vermigli che pesano sui mari dei tropici e lo è nel rosso-sangue dei campi di papaveri dipinti da Nolde.
Nonostante questo sarebbe sbagliato parlare di pessimismo per la pittura noldiana, per il semplice motivo che la sua arte ambisce a mostrare le cose stesse nella loro essenza, non certo a dare valutazioni morali su di esse, è un arte essenzialmente avalutativa. Non si tratta, insomma, di formulare un giudizio di condanna o assoluzione per il nostro mondo e per la nostra contemporaneità, si tratta invece di prendere atto della struttura stessa della realtà: quello che Nolde vuole fissare sulle sue tele non è infatti il mondo come appare ma semmai il mondo come è realmente, oltre tutte le apparenze e le convenzioni che hanno falsato lo sguardo di noi europei. Non si vogliono più ritrarre le belle apparenze che paiono circondarci, si mira invece ad attingere e, per quanto possibile a ritrarre, l’urphänomen del reale, l’archetipo originario delle cose stesse, per quanto possa risultare sgradevole, brutto e tragico per la nostra umana sensibilità. Ma l’archetipo di Nolde non ha nulla di ideale ed alato, nulla di disincarnato ed intellettuale: la dimensione primaria dell’uomo è infatti saldamente rintracciata dal maestro tedesco nella corporeità, nella materialità, nella concretezza, che a volte pare spaventosa, dell’esistenza. Il primum per Nolde non è affatto il pensiero, è semmai il corpo. Più che al bello e all’ideale, quest’arte mira al vero, all’autentico, al primigenio: e quale dimensione più originaria poteva Nolde trovare di quella religiosa?
Sono molti infatti i dipinti noldiani riconducibili a tematiche mistico-religiose, ed anche in questo ambito della sua produzione è la corporeità il tema predominante: lo è, in Martyrium, quadro del 1921, dove, accanto a un Cristo dai capelli fiammeggianti che pare quasi ristretto dal dolore, giganteggiano quattro figure dalle sembianze prettamente ebraiche. Tra gli intenti di Nolde, infatti, vi era primariamente quello di restituire la vicenda cristica alla sua dimensione ebraica, per troppo tempo dimenticata dalla pittura europea: «Nei miei dipinti religiosi, - scrive Nolde - obbedendo a un’istanza di verità, ho rappresentato i giudei come erano realmente, e come mai erano stati dipinti. Nelle opere d’arte dei secoli precedenti gli apostoli e i personaggi biblici erano stati dipinti sempre come se fossero degli italiani, o dei letterati e borghesi del Nord-Europa. Io li ho restituiti, come il Cristo, al loro popolo». (http://www.dehoniane.it/edb/rsync/contenutiextra/itinerario4_allegato2.pdf).
È un Cristo concreto, storico, quello ritratto da Nolde, pienamente umano e perciò affatto immune dalla negatività di questo mondo, è un Cristo che come uomo soffre e muore (si veda a tal proposito la toccante Deposizione del 1915).
Nella scena dell'ingresso in Gerusalemme è
ribadita questa dimensione di concretezza (l'ambiente schiettamente
medio-orientale) ma c'è anche qualcosa in più: nella capigliatura rossa del
Nazareno, nel suo mantello scarlatto, c'è sia il futuro sacrificio del
Redentore sia l'apertura al totalmente altro, il salto dalle miserie di
quest'esistenza ad un fuoco d'amore sovrannaturale.
È questo stesso fuoco d'amore ad
animare i capelli della figura cristica in Estasi, opera del
1929 in cui il tema mistico-religioso è messo in relazione con la
corporeità-sensualità dell'uomo.
La corporeità in Nolde viene così ad
assumere una duplice valenza: è infatti sia la catena che inchioda l'uomo
all'animalità, sia lo strumento imprescindibile di un possibile riscatto ultraterreno.
Nessun commento:
Posta un commento